il 42% degli italiani lo percepisce con connotazioni negative; 4 lavoratori su 10 ritengono di non potervi esprimere la propria personalità; il 55% si sente più realizzato nelle attività svolte fuori dal contesto lavorativo. Disagi avvertiti con più intensità dal ceto popolare e dai 31-50enni.
Cosa rappresenta il lavoro, oggi, per gli italiani? È ancora percepito come fattore identitario, elemento di dignità, opportunità di crescita? Il Report FragilItalia “Lavoro e alienazione”, realizzato da Area Studi Legacoop in collaborazione con Ipsos, in base ai risultati di un sondaggio condotto su un campione rappresentativo della popolazione italiana per testarne le opinioni relative al tema, delinea una realtà molto diversa, di diffusa insoddisfazione e disaffezione verso il lavoro, con differenze significative relative, soprattutto, all’età e al ceto di appartenenza e, per talune evidenze, al livello di istruzione.
Colpisce, anzitutto, il fatto che più di 4 italiani su 10 (il 42%, che sale al 50% nel ceto popolare e al 55% tra i laureati) descriva il proprio lavoro con almeno una connotazione negativa: “impegnativo”, “stressante”, “faticoso”, “distaccato”. Ancora più significativo che nella classe di età 31-50 anni, ovvero delle persone che sono nel pieno dell’attività lavorativa, a pensarla così siano 6 italiani su 10 (il60%). Insomma, il lavoro vissuto più come un obbligo che come un’occasione di espressione o di realizzazione personale. Al contrario, ad indicare almeno una connotazione positiva (“dinamico”, “creativo”, “in linea con il mio modo di essere”) è il 34% (il 41% tra i laureati, il 43% nel ceto medio e nella fascia di età 31-50 anni).
Tendenze che trovano conferma nelle dimensioni che assume la percezione di una nuova alienazione lavorativa, di nuovo con differenze marcate in relazione, soprattutto, ad età e collocazione sociale. Quattro lavoratori su 10 (il 39%) non sentono di poter esprimere la propria personalità nel lavoro svolto; un dato particolarmente sentito dagli appartenenti al ceto popolare (61%), dai lavoratori a bassa scolarizzazione (52%), dagli under 30 (49%). Il 23% (che sale al 42% nel ceto popolare) si sente disconnesso dal prodotto finale; il 22% (ma con una percentuale più che doppia, il 47%, nel ceto popolare) percepisce costantemente una mancanza di scopo o di significato nel proprio lavoro. Indicatori di segno diverso per gli over 64 e il ceto medio. La mancanza di scopo nel lavoro è avvertita raramente o mai dal 62% degli over 64 e dal 54% del ceto medio; la possibilità di esprimere la propria personalità con il lavoro è percepita dal 71% degli over 64 e dal 68% del ceto
medio. Entrambe le fasce si sentono, inoltre, abbastanza o molto connesse con il proprio lavoro: gli over 64 per l’84%, il ceto medio per il 77%.
“Il lavoro, da motore di dignità e sviluppo, si sta trasformando sempre più in un fattore di insoddisfazione e alienazione” -afferma Simone Gamberini, presidente di Legacoop – “Il lavoro, oggi, rischia di diventare una trappola di fatica e frustrazione. Stress, alienazione e insoddisfazione dilagano, colpendo soprattutto chi dovrebbe essere nel pieno della propria vitalità professionale. Se sei giovane o appartieni al ceto popolare, hai il doppio delle probabilità di sentirti disconnesso, svuotato, senza scopo. Incidenti sul lavoro, retribuzioni che non tengono il passo, perdita di senso e di realizzazione nella propria attività lavorativa: non interrompere questa deriva significa compromettere il futuro di un’intera generazione. Senza un lavoro che valorizzi le persone, si svuota il senso stesso della crescita economica e sociale e il lavoro deve tornare ad essere uno strumento di emancipazione, non di sofferenza. Serve un impegno comune delle istituzioni e delle parti sociali per costruire contesti lavorativi che riconoscano e valorizzino le persone, restituendo senso e prospettiva stabile e sicura al loro impegno quotidiano. Il senso di questo primo maggio, sempre più attuale, è che non c’è futuro senza lavoro dignitoso e sicuro.”
Il report contiene, inoltre, un’analisi delle dinamiche attuali di disaffiliazione dal lavoro, che ripropongono significative differenze legate ad età e ceto sociale. Il primo dato rilevante che si delinea è quello del 55% dei lavoratori che si sentono più realizzati nelle attività che svolgono fuori dal contesto lavorativo che nel lavoro. Una percezione particolarmente avvertita dal ceto popolare (64%) e dalla fascia di età 31-50 anni (62%). Il 45%, al contrario, dichiara di sentirsi maggiormente realizzato nell’attività lavorativa (il 62% per gli over 64; il 50% per il ceto medio; il 49% per le donne). Altra dinamica rilevante è quella dell’esaurimento emotivo da lavoro: 4 lavoratori su 10 si sentono emotivamente esausti a causa del loro lavoro almeno qualche giorno a settimana. Diventano 5 su 10 (il 48%) nella fascia di età 31-50 anni e 7 su 10 (il 69%) nel ceto popolare. Meno avvertito, invece, il condizionamento che il lavoro può esercitare sulla vita privata. Il 65% (che sale all’81 degli over 64 e al 78% del ceto medio) ritiene che il lavoro non interferisca negativamente con la propria vita personale e familiare. Di parere opposto il 35%, di nuovo con un’incidenza maggiore della media per il ceto popolare (61%) e per i 31-50enni (42%).